Ispirazioni

Antonio Somaini

Ispirazioni

Antonio Somaini

Visibilità e invisibilità del dono

1. Introduzione

Riflettere sull’opera d’arte a partire da nozioni come quelle di dono, offerta, gratuità e ospitalità – con tutta l’ambiguità che queste nozioni possiedono e che cercheremo di mettere in luce – ci può forse consentire di considerare l’arte, come il luogo in cui vengono instaurate e simbolizzate forme di relazione e di reciprocità che coinvolgono di volta in volta l’invito e la provocazione, l’omaggio e l’insidia, la dedica e l’affronto; forme in cui i gesti del dare e del ricevere conservano tutta la loro ricchezza e il loro fascino, in un mondo in cui le regole delle relazioni interpersonali tendono invece a divenire sempre più prevedibili ed esplicite.
Durante il secolo che si è appena concluso, il discorso sul concetto di dono ha seguito un percorso tortuoso: letture assai diverse e appartenenti a discorsi teorici inizialmente indipendenti hanno finito per incrociarsi e dialogare in maniera inaspettata. Volendo tentare di delineare un quadro d’insieme assai semplificato, possiamo individuare un primo filone di studi che trae origine dal Saggio sul dono di Marcel Mauss,i scritto nel 1924, e che vede in esso un testo inaugurale e ricco di conseguenze: la sua interpretazione del dono come “fenomeno sociale totale” al tempo stesso libero e obbligato e caratterizzato dal triplice obbligo di donare, ricevere e ricambiare, ha dato luogo a una serie di commenti, revisioni e riprese. Di volta in volta, si è visto in esso il germe non completamente sviluppato di un progetto di antropologia strutturalista, oppure se ne sono approfonditi o criticati i riferimenti etnografici, storici e linguistici, che avevano portato Mauss a ricondurre alla categoria del dono tutta una serie di fenomeni sociali di provenienza storica e geografica assai diversa. Da una radicalizzazione del tema potlatch, il dono agonistico nella sua forma più paradossale e distruttiva, nasce all’inizio degli anni Trenta il progetto sviluppato da Bataille di un’economia generale del dispendio che mette al centro di una riflessione al tempo stesso cosmologica, esistenziale, antropologica ed estetica il concetto di “dépense”, ossia i fenomeni del dispendio, della dispersione, del consumo improduttivo.ii Negli ultimi anni, in ambito antropologico e sociologico, si sono confrontate posizioni che tendono a reinterpretare il dono all’interno di un’ottica utilitarista, e posizioni che vedono invece nel saggio di Mauss e nelle sue tesi il possibile punto di partenza per un nuovo paradigma delle scienze sociali, chiamato appunto il “paradigma del dono”, capace di render conto di tutti quei fenomeni che sembrano essere animati in primo luogo dal desiderio di dare, trasmettere e restituire.iii
Parallelamente e, almeno all’inizio, indipendentemente da questo percorso, sul versante filosofico si delinea un’altra storia, quella di cui è protagonista il concetto husserliano di donazione (Gegebenheit), “principio dei principi” dell’indagine fenomenologica in quanto è a partire da esso che può essere chiarita la natura del fenomeno e dell’intuizione donatrice originaria cui si offrono la cosa o il senso stessi, “in carne e ossa”, nella loro presenza immediata. Il tema della donazione subisce poi una torsione nel pensiero heideggeriano: se già nel testo L’origine dell’opera d’arte, del 1935-1936, l’essenza dell’arte viene descritta come “instaurazione” (Stiftung) della verità, e l’instaurazione come “donazione e traboccamento”,iv nell’ultima fase della riflessione heideggeriana il progetto di un pensiero dell’essere alternativo a quello della metafisica – secondo cui l’essere non viene più compreso secondo la forma della semplice presenza ma si dà come evento – si articola attorno a una serie di termini che rimandano alla semantica del dare e del prendere, dell’invio, dell’appropriazione e dell’espropriazione: es gibt, Gabe, Schicken, Ereignis.
Da circa vent’anni a questa parte, i filoni che si richiamano al saggio di Mauss, alla nozione di dépense sviluppata da Bataille, al tema fenomenologico della donazione o al concetto heideggeriano di Ereignis hanno cominciato a fondersi e a dialogare, dando luogo a studi in cui la nozione di dono transita dall’antropologia alla sociologia, dalla fenomenologia all’ermeneutica, dalla teoria dell’immagine a quella della letteratura. Derrida propone una lettura del dono che ribalta a una a una le tesi di Mauss e, interrogandosi sul rapporto fra dono, temporalità ed evento,v arriva a sostenere la tesi radicale secondo cui, se c’è dono, questo deve essere assolutamente invisibile, inconsapevole, inatteso e non ricambiabile. Marion, a sua volta, vede nel concetto di dono e nella sua assoluta gratuità e incondizionatezza il punto di partenza per chiarire la natura della donazione, concepita come principio primo della fenomenologia in quanto con essa si ha il darsi assoluto e incondizionato dell’apparire e della manifestazione, lo sfondo a partire dal quale si costituiscono progressivamente l’ente e l’oggetto.vi Negli ultimi anni, infine, diversi autori hanno individuato nella questione del dono lo snodo centrale di tutta una serie di questioni riguardanti, di volta in volta, i presupposti dell’indagine fenomenologica, i fini della decostruzione, le politiche del genere, l’etica della responsabilità e della cura, lo statuto dell’immagine e della scrittura.
Di fronte a una storia così complessa e tortuosa, il nostro tentativo di attribuire al concetto di dono il ruolo di filo conduttore per una riflessione sulla natura relazionale della pratica artistica contemporanea parte dal presupposto che la polivocità che questo concetto ha assunto lungo il percorso che abbiamo delineato non può essere ignorata o sospesa, bensì deve essere mantenuta in tutta la sua fecondità. L’interrogazione circa la natura del dono suscita infatti risposte tanto diverse da sembrare quasi contraddittorie e antinomiche fra di loro, visto che fanno leva di volta in volta sulla spontaneità del dare o sull’obbligo della reciprocità, sulla generosità o sulla distruzione, sul dono come manifestazione simbolica o sull’invisibilità e sull’oblio come condizioni imprescindibili perché vi sia dono. Ecco come potrebbero essere riassunte, a nostro parere, le tre grandi ambiguità con cui deve fare i conti una riflessione sul dono:
– la prima ci propone un’opposizione fra il dono inteso come spontaneità e libertà (offerta generosa, omaggio devoto, dedica rispettosa e sincera) e il dono come vincolo, obbligo, instaurazione di una reciprocità in cui convivono al tempo stesso l’ospitalità e l’insidia, la generosità e la sfida;
– la seconda confronta una lettura che vede nel dono l’emblema della gioia e della pienezza del dare, della generosità intesa come generatività, capacità di generare, di dar vita, e una lettura secondo cui questo stesso dare si rivela come perdita, dispendio improduttivo, spreco, distruzione, manifestazione gloriosa di un potere di perdere che porta con sé affermazione e volontà di potenza;
– la terza forma di ambiguità, infine, è quella che sussiste tra un’interpretazione del dono come simbolo visibile che sancisce e rappresenta un’alleanza – simbolo capace di costituire e solidificare l’identità dei soggetti che entrano in un vincolo di reciprocità che prevede uno scambio di doni, alternato e differito nel tempo, ma comunque obbligato – e un’interpretazione secondo cui il dono è un evento che per rimanere tale deve essere assolutamente gratuito, incondizionato e unilaterale, invisibile e irrappresentabile, inatteso e inconsapevole, al di là di ogni possibilità di riconoscimento e di reciprocità da parte di un soggetto che lo percepisca come dono.vii
(…)

Dono e relazione

Quale parte della nostra morale e dei nostri costumi è ancora legata alla dimensione del dono e al suo carattere al tempo stesso libero e obbligato? quali fenomeni sociali si richiamano ancora al fascino della dépense improduttiva? Ancora oggi, così sembra, vige la reciprocità del dono e dell’ospitalità: il dono e l’invito devono ancora essere ricambiati, l’ospitalità ha ancora le sue regole, i suoi tempi e le sue misure, l’emulazione nel dare e la restituzione ad usura sono ancora delle tentazioni, le cose donate possiedono ancora una sorta di mana che conferisce loro uno statuto particolare. Al tempo stesso, però, si percepisce da più parti una tendenza verso la progressiva standardizzazione e uniformazione delle pratiche del regalo e dell’ospitalità: le relazioni interpersonali tendono a omologarsi e a impoverirsi, le regole del dare e del ricevere diventano troppo esplicite e perdono il loro valore simbolico, i doni vengono comprati e offerti seguendo modelli di desiderio precostituiti, ripetitivi e dal forte potenziale mimetico.
In questo quadro l’arte si presenta come un dominio all’interno del quale i gesti del dare e del ricevere mantengono tutto il loro fascino e la loro ambiguità. Se le forme attuali dell’interazione e della comunicazione interpersonale tendono a uniformarsi e a diventare esplicite e ripetitive, all’interno della pratica artistica contemporanea assistiamo a tentativi di instaurare nuove forme di relazione tra artista, opera e fruitore, che a nostro parere possono essere lette con più perspicacia attraverso il riferimento alla nozione di dono: nuovi legami, nuovi vincoli, nuove forme di generosità e di seduzione, nuove insidie. In un quadro in cui lo sguardo tende a diventare consumo e l’immagine stimolo, lo scambio meccanica transazione e il legame un artefatto ripetibile e prevedibile, diventa sempre più attraente la possibilità di ripensare all’opera d’arte come dono e alle diverse forme che assume la fruizione, dal godimento alla scrittura, come a una risposta che può essere intesa come contro-dono.
(…)

2. Spontaneità e obbligo

L’interpretazione del dono come gesto al tempo stesso libero e obbligato e come momento di un complesso sistema di relazioni di reciprocità è al centro del Saggio sul dono di Mauss, il quale è al tempo stesso uno studio volto a chiarire il significato del dono nelle società arcaiche – riconducendo al concetto di “dono” tutta una serie di pratiche e di usanze che includono il potlatch e il kula – e un’indagine archeologica sulla natura delle transazioni umane prima dell’istituzione del contratto giuridico e della moneta: uno studio al tempo stesso di storia sociale e di sociologia teorica, e un testo dalle forti implicazioni propositive, come testimoniano le importanti “Conclusions de morale” con cui si chiude il saggio. Sulla base del riferimento a numerosi studi etnografici, Mauss conduce un’indagine sul dono nelle società primitive e arcaiche e lo intende come “fenomeno sociale totale”, ovvero come una forma di “prestation totale” che coinvolge l’intera vita delle tribù studiate, un’ampia rete di scambi e una circolazione di simboli dalle molteplici implicazioni religiose, giuridiche, morali, politiche, economiche ed estetiche, e caratterizzata dalla compresenza di libertà e vincolo, spontaneità e imposizione, obblighi di reciprocità e rituali dell’ospitalità, omaggio e confronto agonistico.viii
Nella concezione maussiana del dono, l’opposizione tra libertà e obbligatorietà è dunque radicalmente rimessa in discussione: i doni sono “in teoria volontari, in realtà fatti e ricambiati obbligatoriamente”ix in quanto vengono scambiati all’interno di un patto e di un’alleanza che prevedono, anche se spesso in modo implicito, obblighi di reciprocità. A questo proposito, Mauss parla del “triplice obbligo del donare, del ricevere e del ricambiare”: “La prestazione totale, infatti, non implica soltanto l’obbligo di ricambiare i regali ricevuti, ma ne presuppone altri due, non meno importanti: l’obbligo di fare dei regali, da una parte, l’obbligo di riceverli, dall’altra.”x In altre parole, non si è liberi di scegliere se donare o rifiutare l’omaggio e l’ospitalità offerti: il dono deve essere ricambiato, l’ospitalità accettata.
Nel sottolineare il triplice obbligo del donare, del ricevere e del ricambiare, Mauss attribuisce un chiaro primato al fenomeno del potlatch praticato dagli indiani delle coste del Nordovest americano, fenomeno a cui riconduce, almeno in parte, il kula delle isole Trobriand.xi Il potlatch, definito da Mauss come “prestazione totale di tipo agonistico”, è uno scambio di doni caratterizzato da una forte dimensione di antagonismo e di sfida che consiste nel rivaleggiare in generosità, esibendo e distruggendo ricchezze: “In certi potlatch bisogna dare tutto ciò che si possiede, senza conservare niente. Si gareggia nel dimostrarsi i più ricchi e i più follemente prodighi. Tutto è basato sul principio dell’antagonismo e della rivalità. Lo statuto politico degli individui, nelle confraternite e nei clan, i ranghi di ogni specie si ottengono con la ‘guerra di proprietà’, allo stesso modo che per mezzo della guerra, o grazie alla fortuna, o per eredità o con l’alleanza e il matrimonio … In un certo numero di casi non si tratta neppure di dare e di ricambiare, bensì di distruggere, per non dare neanche l’impressione di desiderare qualcosa in cambio.”xii Il potlatch, che Mauss non esita a descrivere come “una specie di prodotto mostruoso del sistema dei regali”,xiii consiste dunque nell’attestare la propria potenza e la propria ricchezza disperdendola, in modo tale che distruzione e dilapidazione diventano il veicolo di un gesto di umiliazione e soggiogamento; ogni dono è al tempo stesso un omaggio e una sfida, cui si può rispondere soltanto ad usura, ossia aumentando vertiginosamente la quantità e il valore delle ricchezze dilapidate.
Nonostante alcune importanti differenze, il kula viene considerato da Mauss come “una specie di grande potlatch”xiv: grande circolo dello scambio intertribale fra le diverse popolazioni delle isole Trobriand, il kula ha in comune con il potlatch il rigido rispetto dell’alternanza – si è a turno donatori o donatari, e tra offerta e restituzione vi è sempre un importante differimento temporale – e l’obbligo della restituzione ad usura. Ciò che è caratteristico del kula è un principio di circolazione totale di beni, omaggi, simboli: “Il sistema dello scambio dei doni investe tutta la vita economica, tribale e morale dei Trobriandiani. Essa ne è ‘impregnata’, come dice assai bene Malinowski; è come un perpetuo ‘dare e prendere’; è come attraversata da una corrente, ininterrotta e rivolta in ogni direzione, di doni offerti, ricevuti, ricambiati, obbligatoriamente e per interesse, per ostentare grandezza e per compensare servizi, a titolo di sfida e in pegno.”xv
Nella concezione maussiana, dunque, il dono è sempre al tempo stesso libero e obbligato e inserito in un sistema complesso di obblighi di reciprocità. Il triplice obbligo di dare, ricevere e restituire dà luogo a una catena sempre crescente di doni e controdoni, catena che non è fondata sull’equivalenza e sulla restituzione immediata, ma sul disequilibrio, sul differimento, sull’alternanza, sul fatto che ogni dono dato o ricevuto è in qualche modo diverso da tutti gli altri e si colloca in una successione nel tempo. Dare e ricevere sono strettamente coimplicati,xvi e ciò che determina l’obbligo della restituzione è il fatto che la cosa donata possiede un mana, una forza magica, religiosa, spirituale, che fa sì che la cosa donata non sia mai inerte ma rimanga sempre simbolicamente legata al donatore.xvii

Il dispendio e il potere del dare

Il quadro delineato da Mauss, e in particolare la sua trattazione del potlatch, sottolinea come il dono sia al tempo stesso il luogo dell’omaggio e dell’insidia, in cui donatore e donatario si confrontano e si sfidano attraverso un crescendo di doni e contro-doni. La stessa identità e lo status sociale di donatore e donatario, il loro onore e il loro prestigio dipendono dalla capacità di donare: come scrive Mauss, “donare, equivale a dimostrare la propria superiorità, valere di più, essere più in alto, magister; accettare senza ricambiare o senza ricambiare in eccesso, equivale a subordinarsi, a diventare cliente o servo, farsi più piccolo, cadere più in basso (minister).”xviii Si tratta di una tesi che, in fondo, pur nella distanza incolmabile che ci separa da queste pratiche, vale ancora oggi: un dono non ricambiabile – perché eccessivo, smisurato, sproporzionato rispetto alle possibilità di restituzione del donatario – è visto con imbarazzo, e finisce facilmente per essere inteso come un’offesa e un affronto. Il donatario incapace o impossibilitato a restituire è ancora oggi umiliato e vincolato da un debito dal quale non riesce a riscattarsi. È così che il dono, da omaggio generoso e affettuoso, si trasforma facilmente in un’insidia: ancora una volta è Mauss, in un testo che precede la pubblicazione del Saggio sul dono, a sottolineare l’ambiguità insita nella parola gift, che nelle lingue germaniche ha finito per significare al tempo stesso “dono” (l’inglese gift) e “veleno” (il tedesco Gift);xix un’ambiguità relativa ai pericoli e alle insidie del dare che è ereditata dal termine greco dosis, che significa contemporaneamente “dono” e “dose”, la quale può essere tanto una dose di farmaco che una dose di veleno,xx e che ritroviamo nella storia ricostruita da Benveniste del termine latino hostis, il cui significato era originariamente “straniero con pari diritti”, e finisce poi con significare “nemico”,xxi e in quella del latino daps (“dono”, “offerta”, “tributo”), da cui si origina poi il termine damnum (“danno”).xxii La tesi di Mauss è che se da un punto di vista etimologico il duplice significato di gift/Gift è quasi inspiegabile, dal punto di vista della sociologia storica le cose stanno diversamente: la tradizione germanica dei doni consistenti in bevande e libagioni, e il timore che tali bevande potessero essere avvelenate, avrebbe infatti dato origine all’ambiguità tra dono-regalo e dono-veleno.
Il carattere insidioso del dono e la sua capacità di divenire veicolo di un’offesa e di un desiderio di affermazione vengono ripresi nella lettura proposta da Bataille, che poggia su un’accentuazione radicale di una delle dimensioni del dono, la dimensione propriamente agonistica del potlatch, che culmina nella consumazione e nella distruzione. La tesi dominante del saggio “La nozione di dépense”, primo abbozzo di un progetto che troverà le sue formulazioni successive nei testi intitolati Il limite dell’utile e La parte maledetta,xxiii è una critica radicale al principio dell’utilità in nome di un’economia generale del dispendio. Contro il principio di utilità che regge la razionalità borghese – secondo cui ogni attività è finalizzata alla produzione, all’accumulazione e alla conservazione – Bataille afferma il primato della dépense intesa come dispendio improduttivo, dispersione, spreco, consumo in pura perdita. L’economia generale proposta da Bataille non dovrebbe limitarsi allo studio dei processi produttivi, di scambio e di consumo sotto l’egida della nozione di utilità, ma farsi carico anche del lato oscuro, invisibile ma al tempo stesso inaggirabile della produzione: la parte maledetta, appunto, costituita da quell’eccedenza e quell’esubero che si rivelano refrattari a ogni tentativo di assegnare loro uno scopo e una funzione nella logica dell’utile, votata alla conservazione e all’accumulazione. Si tratta, secondo Bataille, di opporre all’economia capitalistica quella che può essere chiamata “l’economia di festa”: “O la maggior parte delle risorse disponibili (vale a dire lavoro) vengono impiegate per fabbricare nuovi mezzi di produzione – e abbiamo l’economia capitalistica (l’accumulazione, la crescita delle ricchezze) – oppure l’eccedente viene sprecato senza cercare di aumentare il potenziale di produzione – e abbiamo l’economia di festa. Nel primo caso, il valore umano è funzione della produttività; nel secondo, si lega agli esiti più belli dell’arte, dalla poesia, al pieno rigoglio della vita umana. Nel primo caso, ci si cura solo del tempo a venire, subordinando a esso il tempo presente; nel secondo, è solo l’istante presente che conta, e la vita, almeno di quando in quando e quanto più è possibile, viene liberata da considerazioni servili che dominano un mondo consacrato alla crescita della produzione … L’uso delle ricchezze, o più precisamente il loro fine, è essenzialmente lo spreco: il loro ritiro dal circuito della produzione.”xxiv
Al dominio delle “spese improduttive” vengono ricondotti da Bataille fenomeni diversi come il lusso, i giochi competitivi, le feste, il sacrificio, la guerra, i culti, le costruzioni di monumenti suntuari, l’attività sessuale perversa, gli spettacoli, le arti, la scrittura. Come scrive Bataille, “pur essendo sempre possibile opporre le diverse forme enumerate le une alle altre, esse costituiscono un insieme caratterizzato dal fatto che, in ciascun caso, l’accento viene posto sulla perdita, che deve essere la più grande possibile affinché l’attività acquisti il suo vero senso.”xxv In questa affermazione del primato della dimensione del dispendio, dello spreco, della distruzione e della perdita Bataille assegna un ruolo fondamentale al potlatch descritto da Mauss nel Saggio sul dono: nel potlatch e nella distruzione suntuaria degli oggetti ceduti che in esso ha luogo, Bataille vede la più netta manifestazione del “bisogno di distruzione e di perdita” che costituirebbe il nocciolo di ogni attività umana. Il potlatch viene riletto e radicalizzato da Bataille come emblema del piacere di distruggere e consumare, di quel bisogno di perdita smisurata a cui, nei fenomeni descritti da Mauss, sono esposti tutti gli attori della scena sociale, in un continuo susseguirsi di offese, sfide, provocazioni. Il potlatch è dunque al tempo stesso dono, scambio, circolazione, ma anche provocazione, umiliazione, sfida, generosità eccessiva e perversa; un dare che comporta l’acquisizione di un potere, il potere di distruggere e di perdere: “Il problema posto è quello del dispendio dell’eccedente: dobbiamo dare, perdere, o distruggere, ma il dono sarebbe insensato se non prendesse il senso di un acquisto. Bisogna dunque che il dare diventi acquistare un potere. Il dono ha la virtù di un superamento del soggetto che dà ma, in cambio dell’oggetto dato, il soggetto si appropria del superamento: egli considera la propria virtù, ciò di cui ebbe la forza, come una ricchezza, come un potere che ormai gli appartiene. Si arricchisce di un disprezzo della ricchezza, e ciò di cui si rivela avaro è l’effetto della sua generosità. Ma non potrebbe acquisire da solo un potere fatto di un abbandono del potere: se distruggesse l’oggetto in solitudine, in silenzio, non ne risulterebbe alcuna specie di potere, non ci sarebbe nel soggetto, senza contropartita, altro che distacco dal potere. Ma s’egli distrugge l’oggetto davanti a un altro, o se lo dà, colui che dà prende effettivamente agli occhi dell’altro il potere di dare o di distruggere.”xxvi Dare, perdere, consumare, sprecare, sono dunque sinonimo di potere: “L’identità della potenza e del potere di perdere è fondamentale.”xxvii A partire dall’analisi del potlatch emergono una serie di tesi dalla portata esistenziale e cosmologica complessiva: l’esistenza è continua fuoriuscità dal limite dell’utilità, continuo riversarsi fuori di sé, continuo dispendio e perdita di sé, continua soddisfazione di un’avidità sempre rinascente, al di fuori di ogni appagamento, di ogni equilibrio e di ogni equivalenza; il cosmo è pervaso da un’energia in eccedenza che non può che essere sprecata, persa senza profitto, spesa, “volentieri o meno, gloriosamente o in modo catastrofico.”xxviii Simbolo del dispendio glorioso ed esuberante è il Sole, “l’immagine della gloria … luminosa e radiosa.”xxix
Così come nelle “Conclusioni morali” del saggio di Mauss, anche negli scritti di Bataille la riflessione si sposta infine sul presente: che ne è, nella società attuale, della gloria e del dispendio? Dove si nascondono i residui di dépense che sopravvivono all’affermarsi onnicomprensivo della logica dell’utile? A partire dalla Riforma protestante, secondo Bataille, si affermano una morale e un’economia nemiche dello spreco e del dispendio glorioso, il che fa sì che il dispendio improduttivo finisca per confinarsi nelle forme più private e individuali, presto reintegrate all’interno della stessa logica capitalistica, che tende ad assorbire il consumo e lo spreco nei propri dispositivi. Pur nel quadro di un generale affievolimento del senso della dépense, rimangono ancora zone residue in cui essa si manifesta: l’eccitazione (se vista come una forma di intossicazione), il riso, il fumo, gli stati di esaltazione, la creazione di valori improduttivi, la decadenza, le pratiche della perdita personale o sociale, la scrittura. Questa è essenzialmente dépense, dispendio, ancorché simbolico e non reale: “Il termine ‘poesia’, che si applica alle forme meno degradate, meno intellettualizzate, dell’espressione di uno stato di perdita, può essere considerato come sinonimo di dépense: esso significa, infatti, nel modo più preciso, creazione per mezzo della perdita. Il suo senso è dunque vicino a quello di sacrificio.”xxx Distruzione del significato abituale delle parole, luogo dello slittamento e dell’instabilità, la scrittura è comunicazione in quanto perdita di sé, momento in cui soggetto e oggetto si rivelano come “prospettive dell’essere nel momento dell’inerzia.”xxxi

Il dono anonimo

Nelle “Conclusioni morali” con cui si chiude il Saggio sul dono, Mauss esprime l’esigenza di uno studio volto a comprendere quale parte della nostra morale e dei nostri costumi sia ancora attraversata dalla dimensione del dono e se vi siano ancora, nel nostro mondo popolato prevalentemente da prodotti e da merci – ossia da oggetti comprati e venduti – delle cose che possiedono qualcosa che assomigli a un mana, vale a dire a quello “spirito” che presso le società arcaiche circondava di autorità le cose donate che passavano di mano in mano. Infine, Mauss propone un appello perché nella nostra società vi sia ancora spazio per il riconoscimento dei valori della liberalità, della generosità, del piacere del donare in tutte le sue dimensioni.xxxii
Parte delle domande poste da Mauss nelle conclusioni del saggio sul dono sono state riprese da un filone dell’antropologia e della sociologia contemporanee che ha individuato in questo testo un punto di riferimento fondamentale per proporre alle scienze sociali un paradigma alternativo a quello dominante fondato sulla nozione di comportamento razionale mirante alla massimizzazione dell’utilità individuale. Questo “terzo paradigma”, o “paradigma del dono”, sarebbe quello che supera il primato dell’interesse individuale perseguito razionalmente per mettere invece l’accento sulla triplice relazione dell’obbligo di donare, di ricevere, e di ricambiare. Secondo autori come Caillé e Godbout, la posta in gioco è quella di mostrare la presenza e la rilevanza del fenomeno del dono, nelle sue accezioni attuali, in diverse regioni dell’azione sociale, contestando la lettura utilitarista secondo cui dietro il dono e dietro gesti motivati da un’apparente gratuità si nasconderebbe invece il consueto perseguimento dell’interesse individuale. La concezione di dono sviluppata da questi autori rifiuta l’opposizione netta tra gratuità e interesse, sostenendo che il dono è al tempo stesso gratuito e interessato, in quanto è attraverso la sua stessa spontaneità che si arricchisce e si solidifica il legame sociale. Questa tesi viene espressa chiaramente nella definizione di dono proposta da Caillé e Godbout: “Definiamo dono ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone”,xxxiii una definizione che insiste sul fatto che nel dono è implicito l’invito alla reciprocità ma anche l’incertezza circa la possibile restituzione e il differimento temporale tra dare e ricevere. Il dono implica sì reciprocità, circolazione, ma in modo sequenziale e alternato, in modo tale che non c’è mai equivalenza diretta, perfetta reciprocità, bensì c’è sempre rischio, incertezza, disequilibrio, attesa.
Se a leggere Mauss sembrerebbe che nella società contemporanea permangano solo due forme di dono (l’obbligo di dare e ricevere in occasione di feste e compleanni, e le assicurazioni sociali come parziale correzione delle asprezze dell’economia capitalistica), la grande varietà di studi sul dono portati a compimento dal composito gruppo di ricerca che si riunisce sotto la sigla MAUSS (Mouvement Anti-Utilitariste dans les Sciences Sociales) ha avuto il merito di studiare, con un intento etico e politico oltre che semplicemente descrittivo, le forme del dono nella contemporaneità, svelandone la presenza latente in fenomeni assai diversi come le molteplici forme dei legami interpersonali e intergenerazionali, il volontariato e la solidarietà, il rituale natalizio del regalo, il dono del sangue, dello sperma e degli organi. In particolare quest’ultimo, completamente assente nelle società arcaiche, presenterebbe i tratti più netti di quello che è divenuto, almeno in parte, il dono nella società attuale: un dono a estranei, unilaterale, spontaneo e privo di reciprocità possibile in quanto non conosciamo né il destinatario né gli effetti che avrà il nostro dono, soprattutto là dove questi hanno luogo post mortem. Il dono del sangue, dello sperma o degli organi, così come le donazioni fatte nei confronti di associazioni umanitarie, sono nella maggior parte dei casi doni che vengono ricevuti dai destinatari come doni anonimi, senza che vi sia alcun legame di intimità o vicinanza con il donatore: doni che avvengono in assenza di ogni possibilità di confronto e di risposta, e che sembrano nascere da un bisogno apparentemente immotivato di dare, dal sentimento di un debito rispetto al quale, seppure in modo anonimo, si desidera ricambiare e restituire. Di qui la tesi da cui prende le mosse il lavoro di Godbout: “Il desiderio (drive) di dare è altrettanto importante per comprendere la specie umana quanto quello di ricevere. Dare, trasmettere, restituire, la compassione e la generosità sono altrettanto essenziali quanto prendere, appropriarsi o conservare, quanto il desiderio o l’egoismo; l’attrattiva del dono è altrettanto o più forte dell’attrattiva del guadagno, e gli individui tentano in continuazione di sedursi e addomesticarsi a vicenda rompendo e ristabilendo dei legami.”xxxiv

Dono simbolico e dono invisibile

Gli studi condotti dagli antropologi e dai sociologi che si richiamano al saggio di Mauss evidenziano dunque tre caratteristiche fondamentali del dono: a) il fatto che il dono, al tempo stesso spontaneo e obbligato, gratuito e interessato, instaura un legame, una relazione, un vincolo tra persone, legame in cui si costituisce una nuova forma di comunità fra donatore e donatario;xxxv b) il fatto che il dono è un dare consapevole che non vi sarà necessariamente una restituzione, cosa che si manifesta esemplarmente nel caso del dono a estranei; c) il fatto che il dono, infine, più che una mera cosa, è, in ultima istanza, un simbolo, in quanto è ciò che unisce, che dimostra la conoscenza del desiderio altrui, che sancisce un’alleanza e al tempo stesso la simboleggia. Ed è proprio a partire da questa lettura del dono come relazione, legame e simbolo che ci sembrano provenire delle suggestioni interessanti in rapporto all’arte. Concepire l’opera come relazione inserita nell’ambito di un dare e di un ricevere, in cui il dare avviene nell’incertezza circa l’eventuale restituzione, significa pensare all’opera d’arte come simbolo, inteso come ciò che riunisce, come ciò che simboleggia e instaura un legame. Ragionare sull’opera come dono e, forse, come un dono di sé, significa dunque pensarla come luogo dell’incontro tra il desiderio di donare e il desiderio di ricevere, fra il rivelarsi repentino della donabilità e quello della ricevibilità, due termini su cui insiste Jean-Luc Marion, che vede in essi da un lato l’improvviso rivelarsi della possibilità di un dare, una perdita, un abbandono, e nel secondo la consapevolezza dell’accettabilità di un qualcosa come dono, il formarsi di un senso di indebitamento e di un invito alla restituzione.xxxvi
Concepire il dono come simbolo, ossia come manifestazione sensibile che celebra l’instaurazione di un legame, significa sottolineare la visibilità del dono. All’estremo opposto di questa interpretazione, troviamo la riflessione sul dono condotta da Derrida, che da un lato si presenta come antitetica a quella proposta da Mauss, e dall’altro propone delle linee di continuità con quella sviluppata da Bataille. Anche secondo Derrida il dono appartiene costitutivamente alla dimensione dell’eccesso e della dismisura: “Il problema del dono concerne la sua natura eccessiva in anticipo, esagerata a priori. Un’esperienza di dono che non si esponesse a priori a qualche dismisura, un dono moderato, misurato, non sarebbe un dono”.xxxvii Tale dimensione eccedente e smisurata del dono può essere colta soltanto attraverso un progressivo ribaltamento delle tesi su cui si impernia il saggio di Mauss, la cui concezione del dono come prestation totale fondata sul triplice obbligo del dare, del ricevere e del ricambiare doni, rimane interamente nel quadro di un sistema di scambi ed è dominata da tutta una serie di categorie metafisiche come il primato della presenza e della visibilità, i principi di causalità, di ragion sufficiente e di utilità. L’intento di Derrida è quello di proporre un’interpretazione del dono che lo consideri come radicalmente non-presente, non-visibile, non-consapevole.
La decostruzione delle tesi di Mauss viene condotta da Derrida nella prima parte di Donare il tempo, secondo un andamento cadenzato che contrappone a ognuna delle tesi maussiane una contro-tesi. Innanzitutto, scrive Derrida, “affinché ci sia dono, non deve esserci reciprocità, ritorno, scambio, contro-dono né debito”xxxviii: il dono non è interpretabile in termini di scambio, circolo, offerta e restituzione, dono e controdono, in quanto esso è ciò che interrompe l’economia e il circolo dello scambio, è l’irruzione di un evento che, per essere tale, non deve comportare né attesa, né esigenza di restituzione. La seconda tesi afferma che vi è dono solo se non è intenzione, consapevolezza, volontà di donare: “affinchè ci sia dono, bisogna che il donatario non restituisca, non ammortizzi, non rimborsi, non si sdebiti, non entri nel contratto, non abbia mai contratto un debito … Bisogna che, al limite, non riconosca il dono come dono. Se lo riconosce come dono, se il dono gli appare come tale, se il presente gli è presente come presente, questo semplice riconoscimento è sufficiente per annullare il dono.”xxxix E ancora: “il dono, come l’evento, deve restare imprevedibile … deve lasciarsi strutturare dall’alea; deve apparire fortuito, essere vissuto in ogni caso come tale, compreso come il correlato intenzionale di una percezione assolutamente sorpresa dall’incontro di ciò che percepisce, al di là del suo orizzonte di anticipazione: e ciò pare già fenomenologicamente impossibile … Per questo la condizione comune del dono e dell’evento è una certa incondizionatezza … L’evento e il dono, l’evento come dono, il dono come evento, devono essere irrompenti, immotivati – per esempio disinteressati. Decisivi, devono lacerare la trama, interromprere il continuum di un racconto che essi tuttavia richiedono, devono perturbare l’ordine delle causalità: in un istante. … Il dono e l’evento non obbediscono a niente, se non a principi di disordine, cioè a principi senza principio.”xl La condizione del dono è dunque quella dell’oblio e dell’evento, qualcosa che non deve essere né prevedibile, né visibile, né presentabile. Del dono è impossibile una fenomenologia, in quanto esso, per essere tale, non deve essere visibile né intenzionale, rappresentabile, consapevole, non deve apparire come tale né al donatore né al donatario. Quella che ne risulta è una radicale incompatibilità fra dono e soggettività: “Se c’è dono, il dono non può più aver luogo tra soggetti che si scambiano oggetti, cose o simboli. Il problema del dono dovrebbe così cercare il suo luogo prima di ogni rapporto con il soggetto, prima di ogni rapporto con sé del soggetto, conscio o inconscio; ed è proprio ciò che accade con Heidegger, quando egli risale al di qua delle determinazioni dell’essere come ente sostanziale, soggetto o oggetto. Si sarebbe persino tentati di dire che un soggetto come tale non dona né riceve mai un dono. Esso si costituisce al contrario allo scopo di dominare, attraverso il calcolo e attraverso lo scambio, la forza di quella hybris o di quell’impossibilità che si annuncia nella promessa del dono. Lì dove ci sono soggetto e oggetto, il dono sarebbe escluso. Un soggetto non donerà mai un oggetto a un altro soggetto. Ma il soggetto e l’oggetto sono effetti arrestati del dono: arresti del dono. Alla velocità nulla o infinita del circolo.”xli
In conclusione, secondo Derrida, il dono non deve essere reciproco, non deve implicare né riconoscenza né gratitudine, non deve essere visibile né presente: quelle che sono le condizioni di possibilità del dono nella sua accezione descritta da Mauss (circolarità, scambio, intenzione, la messa in gioco delle identità del donatore e del donatario ecc.) producono “l’annullamento, l’annichilazione, la distruzione del dono.”xlii Tutto ciò costituisce naturalmente una provocazione inevitabile nei confronti di un progetto che si propone di rinvenire tracce della dinamica del dono nella pratica artistica. È possibile parlare di opera d’arte come dono o di rappresentazione del dono? Si possono cogliere in determinati gesti o dispositivi delle manifestazioni o delle figure della relazione di dono? La nostra tesi è che, per quanto capace di concentrarsi in gesti e simboli visibili, ogni dono mantiene un residuo di gratuità e di assoluta incondizionatezza che si manifesta solo nella forma di un’esigenza di risposta provata dal donatario: un bisogno di rispondere che determina le diverse modalità della visione e che costituisce una delle motivazioni che ci spingono alla scrittura.

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