Ispirazioni

Cécile Bourne-Farrell

Ispirazioni

Cécile Bourne-Farrell

Nowhere // Now Here

A volte è confortante scrivere, appuntare, disegnare, bucare, fare un’orecchia, piegare qualcosa in un taccuino. Si può avere l’impressione che un’idea o l’immagine, una volta scritta, venga così potenzialmente catturata. Un po’ come seminare sassolini dietro di sé, trattare del pieno o del vuoto, appropriarsi di ciò che vi è scritto per chi prenderà il tempo di consultarlo. A volte il taccuino può anche essere scomodo perché può emanarne una sensazione di incompiuto che ci fa pensare che è anche uno spazio in più: indica l’indicibile verso cui tende disperatamente il desiderio di lasciare una traccia.

Chang Hsia-Fei, René Francisco o Audry Lizeron-Monfils hanno utilizzato il proprio taccuino come rituale, per iscrivere/disegnare un prolungamento di se stessi. Per dirsi che per ogni idea ci potrebbe essere un taccuino, per ogni gesto una pagina? Messi insieme questi taccuini assumono un’altra dimensione. Diventeranno spazi sospesi, come sigillati nel tempo? Forse scrivere su un taccuino solamente il titolo di immagini del 9 agosto 1945 di Hiroshima, piuttosto che riprodurle, prende un altro significato, come propone l’artista James Webb? Si tratta forse di tracciare uno spazio, quello del taccuino stesso, che può anche essere uno spazio in meno o un volume in più come nel caso del taccuino di Enzo Umbaca?

In questo senso, i taccuini sono anche dei giochi di combinazioni possibili che ricordano chiaramente la “Scatola in valigia” (1935-41) di Marcel Duchamp e i Flux Year Boxes, di Georges Maciunas. Questi Fluxkits1 si presentano sotto forma di cofanetti, contenenti ogni tipo di cose, fotografie, piccoli oggetti, taccuini stampati che fino all’inizio degli anni ’70 dominano così ampiamente l’attività di Fluxus.

Il taccuino è sempre stato oggetto di dirottamento di forma, senso e funzione, come nel caso di Map Office, di Malachi Farrell o per Tere Recarens che ha scelto di iscrivere sul bordo dei fogli la parola “Toubab” che significa “uomo bianco” in tutta l’Africa. Fa così l’occhiolino all’estetica di questi taccuini: creando un legame che “fa entrare tutti i neri nel taccuino bianco e chic del mondo di Moleskine”, dice l’artista.

Il taccuino, oggetto di transito come la scatola di Pandora, a volte corrisponde anche a una fase del lavoro dell’artista, che lo porterà alle successive, oppure no. Uno spazio senz’altro vincolo se non le dimensioni e il numero delle pagine del taccuino, dove è sempre possibile ritornare, riappropriarsi di un mito, di una storia o di territori, come Sue Williamson che ha fatto del proprio taccuino uno scorrere di workshop tra La Havana, Johannesburg e Berna. L’artista Seamus Farrell propone un atlante aperto sul continente africano: ogni nazione è individualmente separata dal proprio ambiente in perfetta simmetria come in un’immagine di Rorschach2, per concepire diversamente la geografia di questo grande continente su un taccuino cucito a mano. Mohssin Harraki ha invece scelto di incollare su ogni pagina la riproduzione di 41 copertine di passaporti di nazioni diverse; si tratta di una serie di identità possibili senza sceglierne una piuttosto che l’altra?

Tra il 1968 e il 1970, Pier Paolo Pasolini realizzò in Africa e a Roma un film fuori dal comune intitolato Appunti per un’Orestiade africana, presentato come una serie di appunti filmati per un film da girare. Opera ibrida, polifonica, che si rifà al collage e fa dell’incompiuto la struttura stessa del film, Appunti per un’Orestiade africana è uno splendido oggetto non identificato, una sperimentazione formale che ha pagato caramente la propria modernità ed è entrato nel pantheon dei film maledetti, rifiutati dalle distribuzioni cinematografiche e dalla televisione.

Se gli Appunti per un’Orestiade africana era per il regista italiano un modo per manifestare il bisogno di immergersi in un passato mitico per esplorare il presente, per confrontarsi con le realtà contemporanee, l’Orestiade pasoliniana sarebbe stata africana. La rabbia che esprimeva contro le società occidentali cresceva con la presa di coscienza che il neocapitalismo faceva della tabula rasa del passato il corollario del progresso e del consumo e rendeva il presente inumano ed invivibile. Ma gli Appunti per un’Orestiade africana erano precisamente un’opera riflessiva, meta-discorsiva, in cui il regista e l’artista si interrogavano senza sosta sul proprio progetto.

Gli Appunti di questi artisti sono opere inclassificabili, che sfumano il confine tra fiction e opera, instaurando una relazione complessa tra l’idea e la produzione impossibile, come nel caso di Daniel Chust Peters o di Goddy Leye e del suo taccuino-sfogo del momento fino alla vigilia della sua improvvisa scomparsa nel febbraio scorso, in cui preparava sceneggiature, progetti per la ArtBakery, che aveva creato3, e l’esito futuro del proprio lavoro.

Se Pasolini andò a fare sopralluoghi in Tanzania, in Uganda e in Tanganica, alla ricerca di volti, corpi, luoghi, per un’Orestiade a venire, questo però si rivelò solo un pretesto: gli Appunti per un’Orestiade africana sono in realtà un’opera autonoma che si accontenta di giocare con questa idea di un film da realizzare che finisce per creare le proprie condizioni di esistenza.

Veri work in progress, questi appunti vivono seguendo il ritmo della riflessione dell’artista sulla propria opera e subiscono gli choc delle intuizioni, dei dubbi e dei lampi della sua immaginazione: segue!

Saint-Ouen, febbraio 2012

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